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Cost reduction e project management nei progetti digitali. Perché non si fa? Perché si fallisce?

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Il project management e la disciplina della riduzione dei costi sono realtà assodata da prima di internet eppure parlando degli ambiti digital e technology se ne parla poco o impropriamente. Perché? Il primo grande motivo è la disinformazione sulle meccaniche digitali, il secondo è la grande distanza culturale (a tutte le scale) tra operatori di business (dirigenti, manager) e di tecnologia (tecnici, fornitori). Infine, mancano i professionisti che fanno da ponte e se ne assumono la responsabilità.

 

Può sembrare banale e assurdo, ma dopo varie disquisizioni con imprenditori e dirigenti con cui mi è capitato di confrontarmi al riguardo è facile ravvisare una sorta di “barriera invisibile” che separa il digitale e le aziende.
Si fa fatica a comunicare vicendevolmente e si è portati spesso a pensare e a vedere la sfera digital e technology (IT) proprio come un comparto a sé stante, quando è empiricamente provato che la digital transformation impatta a più livelli e sfere dell’organizzazione. Basti pensare a come si sono evoluti, naturalmente, questi ambiti aziendali negli ultimi 15/20 anni proprio per via di questo processo di trasformazione:

  • Strategia e consulenza direzionale
  • Comunicazione & branding
  • Marketing & Sales
  • IT, Technology
  • Risorse Umane
  • Ricerca e Sviluppo

 

Secondo un rapporto IDC (International Data Corporation) del 2009 sul miglioramento dei risultati del progetto IT, il 25% dei progetti Technology fallisce totalmente. Sulla base dello stesso rapporto, fino al 50% dei progetti richiede una rielaborazione dell’architettura tecnologica progettata e dal 20% al 25% non fornisce ritorno sull’investimento (ROI).1

 

La gestione del progetto o project management è descritta come una delle cause principali del fallimento di questi progetti tecnologici, proprio quando questa gestione viene relegate esclusivamente al comparto IT dell’azienda.

 

Distanza

Questo disinteresse generale porta a una distanza tra le parti, anche di una stessa organizzazione, che a loro volta porta a delle drammatiche conseguenze.
Quando tutto funziona, tutto bene. Esistono tuttavia casi (anche eclatanti) molto rumorosi. Ne voglio citare tre in particolare (riferimenti di ognuno per approfondire a fine articolo)2, che impattano tre tipologie di aziende molto diverse: quella statale, quella corporate e quella startup:

 

Caso Italia.it – 60 milioni di € investimenti per un portale mai realmente partito

Italia.it è stato il progetto Digital della nostra nazione. Un portale che doveva promuovere il turismo italiano nel mondo. Un investimento di oltre 60 milioni di euro negli anni per un progetto web mai realmente nato. Immagine Life in a Byte

 

 

Caso Hertz e Accenture – Causa da 32 milioni di $ per un progetto digitale mai funzionante

Una causa da 32 milioni di dollari quella intentata da Hertz (cliente) verso il suo fornitore digital (Accenture) con l’accusa di aver consegnato un prodotto “non reattivo, non funzionale, non finito”. Immagine Techspot

 

 

Caso Startup – Progetti noti mai decollati con investimenti fino al miliardo di $

Cbinsights nella sua ricerca “biggest startup failures” che tutt’oggi aggiorna, descrive i più grandi fallimenti di startup nel mondo (con investimenti che arrivano, per startup, fino al miliardo di dollari). Immagine GetAutopsy, community di imprenditori digitali che condividono know how su fallimenti e successi

 

 

Responsabilità

Qualche tempo fa pubblicavo questo articolo di approfondimento in cui promuovevo la nascita di una figura professionale: quella del digital/web architect. Sorvolando sul nome specifico (può chiamarsi in qualsiasi altro modo, come Innovation manager ad esempio) questa figura assolverebbe il ruolo di regista, all’interno dell’organigramma aziendale, tra bisogni orizzontali (o di business) e verticali (o di tecnologia) nei processi e progetti che riguardano la trasformazione digitale.

A livello aziendale si sente questa esigenza, proprio perché sempre più nel turbine della digital transformation (quindi con comparti aziendali sempre più liquidi e meno appunto “compartimentati”) si fa fatica a trovare professionisti che possano tradurre in azioni questa trasformazione e fare da raccordo.

Tornando al titolo dell’articolo, il tipo di apporto professionale all’interno di un’azienda (o startup) di questo tipo di figura è evidente e può essere coadiuvante nel rispondere concretamente a questo genere di domande:

  • La tecnologia che stiamo adottando è davvero quella giusta?
  • La comunicazione adottata e i costi derivati sono corretti?
  • L’investimento multicanale di digital marketing che stiamo sostenendo è efficiente?
  • Il team interno ed esterno che sta seguendo il progetto è quello migliore?
  • Stiamo leggendo correttamente le analytics e le KPI del progetto?
  • Come sta evolvendo la nostra industria per via del digitale?

 

Il digital/web architect, per via della sua preparazione ibrida è la figura perfetta sia negli ambienti startup (dove possono esprimere efficacemente la preparazione poliedrica anche in maniera più operativa) che PMI/Corporate (dove possono influenzare positivamente da un punto di vista del management/operatività le scelte sul progetto specifico e svolgere il ruolo di raccordo tra i vari comparti aziendali)

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Simone Mastrogiacomo
Simone Mastrogiacomo
Nativo digitale e startupper di indole. Dopo aver realizzato il primo sito internet ben prima che maggiorenne, ho partecipato a 50+ progetti digitali in varie industrie e scale. Ho contribuito al raggiungimento di risultati in termini di audience raggiunta e fatturati prima durante e dopo gli studi, al Politecnico di Milano, dove ho conseguito la laurea in Architettura con la tesi “Architetto Digitale - Prospettive professionali tra architettura e web al tempo della smaterializzazione”. A 29 anni fondo insieme ad altri giovani imprenditori Quodigi, società di consulenza digitale che ha l’obiettivo di concorrere allo sviluppo e all'innovazione del tessuto imprenditoriale italiano tramite l’integrazione delle competenze.
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